Parthenope di Sorrentino: epopea napoletana tra bellezza e decadenza
Scopri perché Parthenope sta facendo discutere il mondo del cinema: un'opera che divide il pubblico e la critica.
Che i film di Paolo Sorrentino fossero divisivi, lo avevamo intuito sin dall’ormai lontano 2014, quando il regista partenopeo vinse l’Oscar con La grande bellezza, destando tra i connazionali forse più scalpore che felicità.
A dieci anni esatti da quell’ambita statuetta, la storia si ripete. Lo scorso 26 ottobre è uscito nelle sale italiane Parthenope, ultima fatica del cineasta. Nonostante un buon riscontro di pubblico (il film è primo al box office con oltre 5 milioni di euro), non sono mancate le critiche, anche feroci, che quasi sembrano superare le lodi. Il pubblico, ancora una volta, si divide tra coloro che vedono in questo stile, lento e un po’ barocco, un Sorrentino troppo aforistico, dedito a realizzare “clip d’autore”, e quelli che invece ne elogiano la poesia, la bellezza, la fotografia.
Tra i più critici il The Guardian che definisce il regista una parodia di se stesso che gira uno spot di due ore di un profumo di lusso. “Colpa”, forse, della maison Saint Laurent, tra i produttori della pellicola, o della bellissima fotografia di Daria D’Antonio, impeccabile in ogni singolo fotogramma.
Ma non è solo la composizione di Parthenope che desta perplessità. Tra i momenti più criticati del film, il monologo di Greta Cool, attrice in declino che ritorna a Napoli, interpretata da una bravissima quanto irriconoscibile Luisa Ranieri. Un chiaro riferimento a Sophia Loren, cui la Ranieri dà volto, anima e inquietudini in un monologo in cui critica, al limite dell’insulto, i napoletani, che affonda le sue radici in quel fujtevenne ‘a Napoli, scappate da Napoli, con cui già Eduardo De Filippo esortava a fare qualcosa di buono della propria vita, lontani da una città che fagocita i propri abitanti.
Eppure Parthenope, a dispetto delle critiche è già diventato un cult. Lo dimostra l’accoglienza a San Gregorio Armeno di Greta Cool che il Maestro Marco Ferrigno ha posto tra le statuine del presepe quest’anno.
Ma se è normale che un giornale americano non comprenda o non apprezzi la poetica di Sorrentino, chi critica Parthenope non solo non ne ha realmente compreso il senso, ma non ha nemmeno colto l’essenza stessa di Napoli.
In molti, infatti, si sono affaticati a demolire e demonizzare la pellicola, ostinandosi a vedere nell’opera la narrazione biografica di un personaggio di fantasia, Parthenope appunto (interpretata da Celeste Dalla Porta), più che vedere nel film il riferimento epico alla storia della stessa città.
Dal 2014, Paolo Sorrentino paga il prezzo dell’eterno confronto con la sua pellicola più premiata e nota, La grande bellezza, come se ogni altro film dovesse necessariamente esserne all’altezza o una sua ideale prosecuzione.
Pochi hanno colto, o cercato di cogliere, i riferimenti iconografici e culturali, squisitamente partenopei appunto, con cui il Premio Oscar ha raccontato e omaggiato la sua città d’origine.
Non è solo il titolo, Parthenope, l’ambientazione del film, il dialetto o i panorami, ma l’antroponimia dei personaggi, la mitologia che ha dato loro origine, i racconti presi in prestito dalla storia della città: dalla carrozza sul mare che apre la pellicola, chiaro riferimento alla “Carrozza marittima” del Principe di Sansevero (il cui nome, Raimondo, è tra l’altro quello di uno dei protagonisti) al velo attraverso il quale si mostra il volto di Parthenope, chiaro riferimento alla Verità Velata (nota come La Pudicizia), scultura neoclassica di Antonio Corradini che si trova proprio all’interno di Museo Cappella Sansevero.


Nella sua opera, Paolo Sorrentino cita anche Caravaggio, che a Napoli ci aveva vissuto qualche anno lasciando capolavori straordinari. Nelle sequenze più controverse della pellicola, infatti, il cardinale Tesorone (interpretato da Peppe Lanzetta) appare come San Giovanni ritratto dal Michelangelo Merisi. Come il Santo di Caravaggio, Tesorone viene privato degli attributi convenzionali che lo definiscono, rivelando un’umanità nuda, intrisa di imperfezioni, peccati e desideri, persino carnali. Una nudità cruda e priva di artifici, capace di esprimere, sia sulla tela che sullo schermo, la fragilità e la complessità dell’animo umano.
In Parthenope Paolo Sorrentino sovrappone epoche e personaggi, e così il Professore di Antropologia Marotta, impersonato da uno straordinario Silvio Orlando, rimanda immediatamente a quel Gerardo Marotta, noto avvocato e filosofo napoletano scomparso nel gennaio del 2017.
Sorrentino segue un fil rouge invisibile, imprevedibile e apparentemente illogico, con cui imbastisce momenti che, come tessuti diversi, originano un abito sartoriale di raffinata fattura ed eleganza, una straordinaria opera visiva.
Sentimenti, sensazioni e situazioni si susseguono lungo questo romanzo di formazione lungo cinquant’anni, che è epico e, al contempo, personale. Sorrentino cita Vittorio De Sica e L’oro di Napoli, Bernardo Bertolucci e The Dreamers, passando per le paradossali esagerazioni di felliniana memoria. Dal neorealismo alla commedia, sono tanti i tasselli di storia del cinema che compongono questo complesso mosaico.
E poi c’è Napoli, quarta protagonista taciturna e inerme di questa meravigliosa epopea. Colta e provinciale, becera e aristocratica, nobile e fragile, decaduta e seducente di cui Parthenope, ne è incarnazione e stato d’animo, volto e condizione.
La Napoli di Paolo Sorrentino è lontana dalla cartolina patinata propinata spesso al cinema o in tv. Eppure c’è ed è altrettanto bella: nei suoi silenzi, nei movimenti lenti della camera che si snoda da Palazzo Donn’Anna a Castel dell’Ovo, passando per Marechiaro e il Vesuvio. In mezzo il mare, l’acqua, in tutte le sue sfumature: azzurra, chiarissima, blu intensa, turchese, nera come la notte.
I vicoli, che sfilano dinanzi agli occhi impietriti e inermi di Parthenope, ricordano le opere di Domenico Morelli, Giuseppe Palizzi, Gioacchino Toma e quella scuola pittorica napoletana che seppe rielaborare e fare proprio l’impressionismo, fondendolo con tavolozze più scure e la vita quotidiana degli interni. Gli stessi che mostrano una città povera, quasi ottocentesca, quella in cui le famiglie dei Guappi qui, come quelle della corte francese del XVIII secolo, si amano biblicamente in presenza delle famiglie per assicurare l’unione e la progenie.
Bellissima la scena dei panari luminosi, che scendono come stelle cadenti all’interno della corte di un palazzo contornata da una schiera di allegre donne adoranti.
Parthenope, come Napoli, è una femmina che schiva la maternità, elargendo doni di una giovinezza frivola e fuggevole, che svaniscono nella malinconica consapevolezza dell’età adulta, dove i ricordi assumono la forma della nostalgia, dei sensi di colpa, delle opportunità perdute o delle occasioni colte troppo in fretta.
Perché, forse, Napoli è proprio questo: un riscatto che non arriva, un miracolo di San Gennaro che non si compie, ma che si aspetta ugualmente con fede e speranza. Napoli è un sangue amaro che non si scioglie, ma che trova comunque il suo prodigio profano nei festeggiamenti esuberanti ed esagerati di uno scudetto che arriva dopo trentatré anni.